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Nanotecnologie: il futuro dei sensori a nanoporo per un cambio di passo nella ricerca in biologia e medicina

Blasco Morozzo Mauro Chinappi intervistati
Blasco Morozzo Mauro Chinappi intervistati

Le interviste in Laboratorio

Mauro Chinappi – Blasco Morozzo della Rocca

 

di Pamela Pergolini

I sensori a nanoporo sono alla base di dispositivi portatili – che in genere hanno l’aspetto di una chiavetta USB – per sequenziare il DNA e hanno permesso notevoli sviluppi in genomica. Ora la prossima sfida sarà utilizzare i sensori a nanoporo per l’analisi delle proteine, molto più complesse del DNA. Ed è verso questo obiettivo che punta la ricerca a cui hanno lavorato i due docenti dell’Università di Roma Tor Vergata,  Mauro Chinappi del Dipartimento di Ingegneria Industriale e Blasco Morozzo della Rocca del Dipartimento di Biologia, in collaborazione con il gruppo di ricerca guidato da Giovanni Maglia dell’Università di Groningen, in Olanda, nel Laboratorio Single-molecule biophysics.
Secondo la ricerca, pubblicata nell’ultimo numero di Nature Biotechnology 
con il titolo Translocation of linearized full-length proteins through an engineered nanopore under opposing electrophoretic force”, sarebbe possibile utilizzare i sensori a nanoporo per analizzare anche le proteine. Ad oggi, tecnologie in grado di sequenziare in modo semplice singole proteine non sono disponibili. Una tecnologia per il sequenziamento diretto di proteine potrebbe portare a una rivoluzione nella ricerca in biologia e medicina.
Per le nostre Interviste in laboratorio abbiamo chiesto agli autori della ricerca, Blasco Morozzo della Rocca, docente di Bioinformatica, e Mauro Chinappi, docente di Fluidodinamica, di raccontarci in che modo hanno lavorato insieme per cercare di capire l’efficacia di approcci ingegneristici sulla cattura e il trasporto di proteine attraverso una tecnologia innovativa come quella dei biosensori a nanoporo.

D. Qual è l’aspetto principale che lega la Biologia molecolare a questo campo dell’ingegneria, la Fluidodinamica?
R.Mauro: Nelle bionanotecnologie il confine tra le discipline è molto sfumato. In questo progetto ci occupiamo del trasporto di liquidi attraverso canali, che è tradizionalmente un argomento di cui si occupa la fluidodinamica. Nello specifico, i canali di cui ci occupiamo in questo studio sono costituiti da proteine, dunque per la loro progettazione sono indispensabili conoscenze di biologia molecolare.
R. Blasco: Nonostante il nostro inquadramento formale, abbiamo entrambi una formazione multidisciplinare e questo ci permette di poter affrontare problemi complessi con visioni complementari. È una situazione che nella scienza contemporanea si verifica sempre più spesso … fortunatamente aggiungerei.
D. Parliamo dei nanopori: quali sono le caratteristiche di questi sensori altamente innovativi, come funzionano?
R. Mauro: Un singolo poro di pochi nanometri di diametro connette due camere in cui c’è acqua e sale. Un voltaggio applicato tra le due camere causa il passaggio di ioni da una camera all’altra. La corrente elettrica associata al passaggio di ioni può essere misurata facilmente con un amperometro. Quando una molecola è nel poro, il passaggio di ioni è ostacolato e quindi passa meno corrente elettrica nel sistema, un po’ come quando cade qualcosa in un lavandino e fluisce meno acqua attraverso lo scarico.

R. Blasco: Molecole diverse danno luogo a diversi segnali elettrici. Quindi, dalla variazione di corrente elettrica è possibile identificare la molecola che in quel momento sta occupando il poro. I sensori a nanoporo per l’analisi del DNA sono ormai una tecnologia consolidata: è molto semplice portare il DNA al poro perché è una molecola carica – e quindi è possibile guidarla con un campo elettrico – ed è anche relativamente semplice controllare il suo passaggio nel poro usando dei motori molecolari. Estendere questi approcci all’analisi di proteine è molto più complesso in quanto le proteine non hanno una carica omogenea. Una delle novità del nostro lavoro è aver mostrato come sia possibile indurre la cattura e il trasporto di proteine grazie ad un fenomeno fluidodinamico noto come elettroosmosi.
D. Che significa nella pratica “ingegnerizzare” un nanoporo biologico? Il nanoporo che avete utilizzato è stato costruito appositamente per questa ricerca?
R. Mauro: Ad oggi è possibile mutare la sequenza delle proteine per generare pori che espongano al loro interno regioni cariche positivamente o negativamente. Tuttavia, capire se e quali mutazioni sono utili per un certo obiettivo non è semplice. Le nostre simulazioni hanno permesso di comprendere in che modo le modifiche della superficie interna del poro alterino il flusso di acqua (l’elettroosmosi). Ulteriori simulazioni hanno poi permesso di quantificare le forze agenti sulla proteina all’interno del poro mostrando, ad esempio, che la forza dovuta al flusso elettroosmotico può essere così intensa da permettere di catturare e trasportare proteine anche quando la forza elettroforetica è orientata in direzione opposta.

R. Blasco: Uno dei vantaggi di usare pori biologici è che la loro struttura è determinata dagli aminoacidi che la compongono, i quali a loro volta sono codificati nel DNA che si usa per la loro produzione. In questo modo è possibile creare molte combinazioni diverse e testare il loro comportamento o efficacia rispetto a una funzione che si vuole implementare. I nostri collaboratori in Olanda, in particolare Adina Sauciuc, ne hanno prodotti oltre una decina, per cercare di capire quale andasse meglio. Incrociando i dati dei modelli, degli esperimenti e delle simulazioni abbiamo identificato le combinazioni migliori per il nostro scopo.

 

D. Una domanda di biologia: qual è l’utilità di poter identificare e sequenziare proteine?
R. Blasco: Le proteine sono tra gli attori principali dei fenomeni biologici, sono le operaie, le esecutrici delle più svariate funzioni, da quelle più semplici e strutturali a quelle complesse come la trasmissione di segnali nervosi o la conversione della luce in energia chimica, tanto per fare qualche esempio. Anche se spesso si dà molta importanza al DNA e ai geni (giustamente), l’informazione che essi contengono viene “messa in pratica” dalle proteine. Queste poi subiscono altre modifiche durante la loro vita, maturano con delle modificazioni chimiche, che sono spesso associate a fenomeni di regolazione e anche all’insorgenza di patologie. Potere identificare e sequenziare le proteine, con strumenti rapidi ed efficaci, avrebbe implicazioni di vasta portata anche per la diagnosi di malattie e la cura dei pazienti.
D. Questa innovativa tecnologia ha permesso di ottenere sviluppi nel sequenziamento del DNA a partire dagli anni ‘10 del 2000, quali nuove prospettive alla ricerca può aprire questo vostro studio?
R. Blasco: Ad oggi, tecnologie in grado di sequenziare direttamente singole proteine non sono disponibili. Esistono approcci che forniscono informazioni sul proteoma, ma richiedono dei passaggi complessi. In alcune tecniche le proteine vanno tagliuzzate e ricomposte, per altre servono complessi cicli di reazioni o macchinari molto sofisticati e costosi. Una tecnologia per sequenziamento diretto di proteine potrebbe portare a un cambio di passo nella ricerca in biologia e medicina forse paragonabile a quel che è accaduto qualche decade fa con la disponibilità di sequenziatori di DNA a basso costo, i cui riflessi e ricadute si stanno raccogliendo anche ora.
R. Mauro: Il nostro studio è un tassello che potrebbe aiutare a risolvere uno dei problemi principali dei sensori a nanoporo per le proteine: la possibilità di controllare il trasporto delle proteine attraverso il poro. Fino a qualche anno fa, solo pochi gruppi di ricerca studiavano la possibilità di usare approcci nanofluidici come l’elettroosmosi per controllare il trasporto di proteine. Ora vari gruppi si stanno muovendo in questa direzione e, il nostro studio, in qualche forma, suggerisce che questa sia una direzione promettente.
D. In quali altri campi possono essere utilizzati i sensori a nanoporo?
Blasco: Ovunque siano coinvolti attori biologici! Oltre alla medicina, la microbiologia e l’ambiente mi vengono in mente tutti quei processi industriali che coinvolgono organismi, come la produzione di yogurt, vino e birra.

 

 

LE PAROLE DELLA SCIENZA
Le parole del giorno
ELETTROOSMOSI: trasporto di acqua indotto da un campo elettrico esterno, da qui il nome elettroosmosi, dal greco ὠσμός “spinta, impulso”. Immaginiamo, ad esempio, un canale sulle cui pareti ci siano, cariche fisse negative e supponiamo che in questo canale ci sia una soluzione elettrolitica (acqua e sale). Queste cariche fisse sulle pareti del canale attireranno gli ioni positivi presenti in soluzione. A questo punto avremo all’interno del canale una prevalenza di ioni positivi. Sotto l’azione di un campo elettrico esterno, questi inizieranno a muoversi e trascineranno l’acqua.
ELETTROFORESI: movimento di una particella o molecola carica indotto da un campo elettrico esterno. È un fenomeno che si usa molto, ad esempio, nelle analisi biochimiche per muovere e separare molecole (proteine, DNA) per poi identificarle.

 

Sezione trasversale del nanoporo (in bianco), attraversato dal peptide (in azzurro, con gli aminoacidi carichi in rosso per i negativi e in blu per i positivi). Il poro attraversa una membrana lipidica (strato grigio) che divide il sistema in due compartimenti, immersi in acqua e sale (sfondo viola e grigio). Se tra i due lati applichiamo una differenza di potenziale si generano forze elettroforetiche (EF) e flussi elettroosmotici (EOF). Nel sistema raffigurato i EOF riescono a soverchiare le EF permettendo la traslocazione della proteina e la sua analisi.
 

ASIASAFE: il progetto Erasmus+ per la sicurezza stradale in Asia

ASIASAFE: il progetto Erasmus+ per la sicurezza stradale in Asia
La Macroarea di Ingegneria ha ospitato i partner del progetto ASIASAFE (Modernisation, Development and Capacity Building of Master Curriculum in Traffic Safety in Asian Universities), arrivati in Italia per partecipare al workshop Erasmus + AsiaSafe Consortium e provenienti da sei università asiatiche (tra cui Indonesia, Malesia e Vietnam).
Il progetto, incentrato sul tema della sicurezza della rete stradale in Asia come problema sanitario, sociale ed economico, è finanziato dalla Commissione Europea all’interno del programma Erasmus+, Capacity Building in Higher Education. Responsabile scientifico del progetto per Tor Vergata è il prof. Antonio Comi, Ingegneria dei trasporti, Pianificazione, progettazione e gestione dei sistemi di trasporto, che ha aperto i lavori, presso l’Aula Convegni di Ingegneria. All’inaugurazione sono intervenuti il rettore dell’Università Roma Tor Vergata prof. Nathan Levialdi Ghiron, il coordinatore della Macroarea di Ingegneria prof. Ugo Zammit, la delegata  all’Internazionalizzazione prof.ssa Bianca Sulpasso, il coordinatore del progetto prof. Ghazwan Al-Haji.  
I paesi membri dell’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale (ASEAN), di cui fanno parte i tre paesi partner del progetto, Indonesia, Malesia e Vietnam (ID/MY/VN), possiedono meno del 3% dei veicoli mondiali ma registrano circa il 12% delle morti stradali nel mondo. Questo numero rimane elevato rispetto a paesi con livelli di motorizzazione molto più elevati, come Italia, Portogallo e Svezia, partner dell’UE. L’obiettivo generale del progetto è quello di sviluppare, adattare e implementare un curriculum di master avanzato e moderno, sia diploma che un programma di master completo, nel campo della sicurezza stradale nell’ambito di sforzi congiunti tra l’UE e le università partner di Indonesia, Malaysia and Vietnam, secondo standard e migliori pratiche di sicurezza stradale dell’Unione europea e standard di accreditamento nazionali. 
Workshop Erasmus + AsiaSafe Consortium – Il programma
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“Tor Vergata” International: ecco perché investire nell’Internazionalizzazione paga. Ne parliamo con la Delegata Bianca Sulpasso 

ASIASAFE – Tor Vergata

 

Ricerca in microgravità, gli esperimenti di Ingegneria Tor Vergata sul volo suborbitale di Virgin Galactic

Ricerca in microgravità, gli esperimenti di Ingegneria Tor Vergata sul volo suborbitale di Virgin Galactic

 

di Pamela Pergolini 

I protagonisti della missione italiana VIRTUTE I, a bordo del volo suborbitale della Virgin Galactic, decollato il 29 giugno dallo Spaceport “America” di Las Cruces, nel New Mexico – con la collaborazione dell’Aeronautica Militare e del Cnr – hanno dovuto sfruttare al meglio i due minuti di microgravità  che avevano a disposizione per condurre i 13 esperimenti previsti nella missione. Tra questi S.UN.R.I.S.E.-VG01-SHA.R.C.S.  (SHApe Recovery of Composite Structures) e S.UN.R.I.S.E. VG02-TES.I.S. (TESting In Space), i due esperimenti programmati da ingegneri dell’Università di Roma Tor Vergata. L’acronimo S.UN.R.I.S.E. sta per “Second UNiversity of Rome in Space Environment”.  Tra i partner scientifici dei 13 esperimenti, diverse realtà universitarie italiane e internazionali oltre ad aziende specializzate in tecnologia e innovazione. 
RICERCA SOSTENIBILE SUBORBITALE
Il volo suborbitale Galactic 01 della Virgin Galactic, che ha ospitato la missione VIRTUTE I (Volo Italiano per la Ricerca e la Tecnologia sUborbiTalE), è il primo dedicato alla ricerca in tali condizioni operative.  «Una missione veramente unica, da diversi punti di vista. È la prima volta che si esegue una sperimentazione scientifica a bordo di un volo suborbitale ed è anche la prima missione internazionale alla quale abbiamo partecipato come Università sin dalle fasi iniziali collaborando con l’Aeronautica Militare, il CNR e con un team di Virgin Galactic», ha dichiarato Loredana Santo, Principal Investigator (PI) degli esperimenti e direttore del Dipartimento di Ingegneria Industriale. «Unica anche per le emozioni che la fase di lancio ci ha trasmesso – continua la prof. Santo. «Emozioni che abbiamo condiviso con tutti a Spaceport America. L’Italia era rappresentata da enti diversi, tutti sotto la supervisione dell’Aeronautica Militare e del CNR ma aventi un unico obiettivo: portare il nostro paese con le sue eccellenze a un primo traguardo importante per la futura sperimentazione spaziale. Un punto di partenza, non di arrivo, che permetterà a noi di Tor Vergata di avere un vantaggio competitivo verso chi si deve ancora avvicinare a questa realtà». L’aereo madre ha portato la navetta Vss Unity fino alla quota di circa 15 chilometri per poi rilasciarla e farle proseguire il suo viaggio oltre la quota di 80 chilometri. Complessivamente il volo è durato 75 minuti. 
SHA.R.C.S. e TES.I.S
I due esperimenti, SHA.R.C.S. e TES.I.S., coordinati dall’Università Tor Vergata (Space Sustainability Center, Dipartimento di Ingegneria Industriale) e caricati sulla navetta Vss Unity, «sono stati progettati per testare l’effetto della microgravità su materiali e processi innovativi per uso spaziale, che si connotano per il loro carattere legato alla sostenibilità», ha spiegato Loredana Santo.
 «L’obiettivo principale di SHA.R.C.S. è validare il recupero della forma di strutture composite per uso spaziale, fabbricate in SMPC (Shape Memory Polymer Composite), in condizioni di microgravità, molto prossime a quelle operative di sistemi dispieganti come antenne e vele solari», ha dichiarato Fabrizio Quadrini, Co-PI della ricerca. Durante il volo suborbitale, nella fase di microgravità, l’astronauta ha attivato l’esperimento con conseguente riscaldamento di un piccolo boom (realizzato in SMPC e avvolto nella fase di memorizzazione della forma). Il riscaldamento genera il recupero della forma originaria del boom con l’ausilio di un sistema che ne guida il dispiegamento. «In presenza di gravità il dispiegamento risente dei diversi carichi prodotti dai pesi dei vari elementi e dagli attriti ad essi collegati ed è difficile prevedere come possa essere modificato in assenza di gravità dove quei carichi si riducono enormemente fino ad annullarsi», ha aggiunto Quadrini. Vai alla scheda
«TES.I.S. invece – ha affermato Loredana Santo – intende studiare l’effetto della microgravità sulla miscelazione di liquidi reattivi nell’ottica di una futura fabbricazione nello spazio per scopi tecnici e biomedicali. La sfida è la produzione di schiume con particelle di densità molto differenti, procedura molto complessa da realizzarsi sulla Terra». Durante la fase di microgravità del volo suborbitale, gli astronauti hanno esercitato una pressione sul pistone di quattro diverse siringhe, poste nelle diverse tasche delle loro tute spaziali, per fare in modo che due componenti liquidi presenti in due distinte camere all’interno della siringa venissero in contatto. «Le schiume realizzate durante l’esperimento saranno estratte dalla siringa una volta tornate a Terra per essere opportunamente analizzate», dichiara la Santo. Vai alla scheda  
Nella navetta Vss Unity, insieme ai tre italiani, protagonisti degli esperimenti scientifici – il colonello Walter Villadei e il tenente colonnello Angelo Landolfi, entrambi dell’Aeronautica Militare Italiana, e Pantaleone Carlucci, ingegnere e ricercatore del Cnr, un altro italiano, il pilota Nicola Pecile di Udine, unico collaudatore del nostro Paese finora selezionato dalla Virgin Galactic, il comandante Mike Masucci e l’istruttore Colin Bennett. 
Photo courtesy: Virgin Galactic

“ISPE Pharma Hackathon”, la competizione ingegneristica per trovare soluzioni in ambito Operational Excellence

“ISPE Pharma Hackathon”, la competizione ingegneristica per trovare soluzioni in ambito Operational Excellence
Martedì 30 maggio, dalle ore 9.00 alle ore 18.30, nell’Aula Leonardo (Edificio Didattica – via del Politecnico, 1) si terrà l’evento “ISPE Pharma Hackathon” in collaborazione con Janssen, azienda leader nel settore farmaceutico. L’evento è rivolto a tutti gli studenti e studentesse  di Ingegneria che intendono mettersi alla prova  in ambito “Operational Excellence” ed è aperto a soli 50 partecipanti che saranno divisi in gruppi di lavoro e presenteranno la loro soluzione davanti a una giuria di esperti.
Tra i premi in palio: una visita nello stabilimento Janssen di Latina, un incontro con il Site Board e la possibilità di inserimento nei processi di selezione aziendale. Inoltre, tutti i partecipanti riceveranno un anno di iscrizione gratuita a ISPE – International Society for Pharmaceutical Engineering (ISPE), l’associazione internazionale no profit di professionisti del Life Science.
Iscrizioni (singolarmente o in gruppo) entro venerdì 26 maggio, fino al raggiungimento dei posti disponibili (50), a questo link 
 
 

 

Ceneri pesanti da termovalorizzazione dei rifiuti: la strada del riciclo della frazione minerale da rifiuto a prodotto

Ceneri pesanti da termovalorizzazione dei rifiuti: la strada del riciclo della frazione minerale da rifiuto a prodotto

di Pamela Pergolini

La Termovalorizzazione di rifiuti dà origine a diversi flussi di residui solidi, tra cui le ceneri pesanti, dette anche scorie di fondo oppure, con il termine inglese, “Bottom Ash” (BA), che rappresentano il quantitativo più abbondante, ovvero circa il 15-22%, in peso, dei rifiuti trattati. 
Nel 2020 in Europa in base ai rifiuti avviati a termovalorizzazione, circa 101 milioni di tonnellate tra rifiuti urbani, commerciali e industriali, si stima una produzione di circa 20 milioni di tonnellate di ceneri pesanti (BA) da termovalorizzazione di rifiuti, in seguito al processo di combustione. In questa parte residua incombustibile dei rifiuti inceneriti sono presenti importanti quantità di metalli e minerali che offrono molte opportunità di riciclo. In Italia esistono già diversi grandi impianti di trattamento per questi residui che recuperano metalli ferrosi e alluminio, oltreché materiali da utilizzare nel campo dell’ingegneria civile. La frazione minerale delle ceneri pesanti presenta infatti una composizione fisico-chimica in termini di costituenti principali simile a quella dei materiali impiegati nell’ingegneria civile come inerti o filler; tuttavia, presenta tipicamente un contenuto più elevato di contaminanti inorganici, come metalli, metalloidi e sali che potrebbero essere rilasciati (o “lisciviati”) a contatto con acqua, in funzione delle loro caratteristiche e delle condizioni di utilizzo. Attualmente, la maggior parte della frazione minerale delle ceneri di fondo viene riciclata, ma non è stata stabilita a livello nazionale una procedura per attribuire alla frazione minerale, che costituisce oltre il 75% in peso delle ceneri pesanti, la qualifica di prodotto invece di rifiuto (End of Waste). Ciò determina incertezze per il settore e una diversificazione a livello regionale delle procedure applicate per determinare la compatibilità ambientale dei prodotti di riciclo.  
LO STUDIO INGEGNERIA “TOR VERGATA” – A2A
Nello studio commissionato dalla Gruppo A2A Ambiente al Dipartimento di Ingegneria Civile e Ingegneria Informatica (DICII) dell’Università di Roma “Tor Vergata”  – e presentato durante il convegno “Verso un nuovo inizio per l’End of Waste”  che si è tenuto il 31 marzo a Villa Mondragone, Centro Congressi dell’Ateneo (a Monte Porzio Catone) –  è stata proposta e applicata una metodologia per valutare la compatibilità ambientale dell’utilizzo di prodotti ottenuti dal trattamento di ceneri pesanti da impianti di termovalorizzazione di rifiuti solidi. Lo studio rientra in un progetto di ricerca promosso da A2A che include anche la valutazione degli effetti eco-tossicologici dei prodotti da parte della società ChemService SrL e di dati tecnico-prestazionali dei prodotti presi in esame, in collaborazione sia con gli impianti produttori sia con gli Enti di controllo. I risultati dello studio verranno pubblicati a breve su una rivista scientifica internazionale. 
PRINCIPIO GERARCHICO DEI RIFIUTI
Esiste una gerarchia dei rifiuti, contenuta nella direttiva quadro sui rifiuti (2008/98/EC) che stabilisce normative e politiche per il trattamento dei rifiuti nell’Unione Europea, e che individua una priorità nella gestione dei rifiuti. Si tratta di una serie di modalità da privilegiare per gestire i rifiuti con il minor impatto ambientale possibile: al primo posto della piramide troviamo la Prevenzione della produzione stessa del rifiuto, al secondo  il Riutilizzo/Riuso, prolungamento della vita utile dei prodotti; al terzo il Riciclo, ossia recupero di vari materiali;  in quarta posizione il Recupero di Energia, mediante produzione di biogas o termovalorizzazione; all’ultimo posto, con sostenibilità minima, lo Smaltimento in discarica controllata.  La gerarchia dei rifiuti costituisce un modello di sviluppo sostenibile secondo i principi dell’economia circolare. «Nello specifico – spiega il professor Francesco Lombardi, ordinario di Ingegneria Sanitaria e Ambientale al Dipartimento di Ingegneria Civile Ingegneria informatica di “Tor Vergata” – le operazioni di trattamento delle ceneri pesanti finalizzate al recupero di materia consistono nella separazione granulometrica, frantumazione, lavaggio, invecchiamento naturale e/o aggiunta di leganti. Le ceneri pesanti così trattate possono essere impiegate come aggregati o sostituti della sabbia in miscele di calcestruzzo o asfalto; aggregati o materiali di riempimento da impiegare senza legante, oppure come materia prima nella produzione di cemento o ceramica». 
QUANDO UN RIFIUTO DIVENTA END OF WASTE
Le condizioni affinché un rifiuto, in seguito ad un processo di recupero, cessi la qualifica di “rifiuto” per acquisire quella di “prodotto” (End of Waste) sono state definite a livello comunitario dalla Direttiva 2008/98/CE, come modificata dalla Direttiva (UE) 2018/851», prosegue il professor Lombardi. «Dalle ceneri pesanti europee, che ammontano complessivamente a 20 milioni di tonnellate l’anno, si può recuperare circa il 10% di ferro e 1% alluminio, con notevoli vantaggi economici e ambientali legati all’evitata produzione dei materiali recuperati». L’alluminio recuperato viene utilizzato prevalentemente nell’industria automobilistica, mentre il recupero della componente non metallica può servire per la realizzazione di materiale da costruzione. «Ad esempio, – aggiunge Lombardi –  l’aggregato di ceneri pesanti è presente nella costruzione di strade in Belgio, Francia, Portogallo, Regno Unito e Spagna».
IL RECUPERO DI CENERE PESANTI IN ITALIA  
«Anche se a livello Europeo non sono stati emanati criteri End of Waste per i prodotti derivanti dal trattamento della frazione minerale delle ceneri pesanti da incenerimento rifiuti ciò non significa che a livello nazionale non si possano trovare soluzioni adeguate, guardando anche alle esperienze degli altri stati membri», afferma il professor Lombardi. Da qui nasce lo studio promosso da A2A che ha l’obiettivo di proporre un approccio integrato per la valutazione complessiva di questi prodotti per un ulteriore approfondimento del grado di conoscenza delle implicazioni relative al loro utilizzo in determinati scenari. 
Leggi L’INTERVISTA IN LABORATORIO Ceneri pesanti: da rifiuto a risorsa – Prof. GIULIA COSTA, Ricercatore IASON VERGINELLI Ingegneria Sanitaria Ambientale, Dipartimento di Ingegneria Civile e Ingegneria Informatica (DICII) 
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Il convegno/Da rifiuti a risorse: verso un nuovo inizio per l’End of Waste